Buffet da Pepi

Nella top ten delle particolarità che un “foresto” vorrebbe sapere su Trieste, ai primi posti devono trovarsi senz’altro i “buffet”. Non si può acquisire il passaporto triestino senza sapere che in bar, per avere un espresso, si ordina “un nero”, che qui non si va al mare ma “al bagno” e che, per l’appunto, lo spirito e il sapore mitteleuropeo di questa luminosa città ai confini dell’Impero si sublima nei buffet, che non sono ristoranti, non sono vere e proprie osterie o bar, ma un bel mix di tutto questo.
Per confermare l’attitudine ai contrasti di Trieste, si può dire che i buffet sono agli antipodi di un’altra conosciuta tradizione cittadina, gli eleganti e quasi eterei caffè letterari. Tanto questi ultimi sono espressioni dello spirito aperto, multiculturale, profondamente intellettuale di Trieste, quanto i buffet ne sublimano le tendenze goliardiche. Singolarità catechizzata anche da Gambero Rosso, rivista guru del gusto italico: “all’eleganza si sostituisce l’allegria tipica dei luoghi in cui scorre molta birra (retaggio austro ungarico), ma qui prima di tutto viene lo spuntino”, scrive la rivista, omettendo che nei buffet triestini lo spuntino si chiama “rebechin” ed è fortemente indicato nei casi di deficit glicemico.
E allora eccola lì, la mitica caldaia che promette estasi culinarie e attentati alle coronarie: vi sobbollono tocchi del nobile maiale, carrè, “porzina” (porcina, coppa di maiale aromatizzata), cotechino, pancetta, salsicce di Cragno, würstel e non manca mai la lingua di vitello.
I più famosi, quelli che di certo non mancano nelle “to do list” dei turisti, sono il mitico Buffet da Pepi [1], aperto nel 1897 e ancora meta obbligata per un tuffo nei sapori austro-ungarici (in via Cassa di Risparmio) e Siora Rosa [2] in piazza Hortis che ha sfamato generazioni di studenti triestini con gloriose polpette ma anche con gnocchi di pane e di susine, sardoni in savor, baccalà mantecato, trippe e jota, minestra tipica triestina con fagioli crauti e patate. Trend topic tra i buffet triestini è anche All’Approdo [3] (via Carducci) dove le leccornie dalla caldaia non si trovano di venerdì, sostituite da piatti a base di pesce.


Lo spirito e il sapore mitteleuropeo di questa luminosa città ai confini dell’Impero si sublima nei buffet. Non sono ristoranti, non sono vere e proprie osterie o bar, ma un bel mix di tutto questo.

E poi ci sono i buffet un po’ meno noti ma davvero autentici. Come Ai Cavai [4], in via Palestrina, che ha appena riaperto e dove i giovani titolari hanno fatto rivivere lo spirito dell’autentica osteria triestina: vino, spuntini e convivialità sotto l’egida delle magnifiche mezzelune dipinte con scene dall’Ippodromo di Trieste che si trovano sopra il vecchio bancone. Dagli anni ’50 qui si servono unicamente tartine e piatti freddi con prodotti selezionati dal territorio (prosciutto di San Daniele e Latteria Marsure) e da fuori regione, come la mortadella, la coppa piacentina o il salame di Varzi accompagnati da una selezione di oltre 500 etichette italiane e internazionali. Tappa obbligata per gli appassionati è anche il Buffet da Robi [5] in via Torrebianca, un “istituzionale” prosciutto in crosta caldo con una generosa spolverata di senape e kren ma anche proposte di pesce e primi piatti. A proposito di istituzioni cittadine, impossibile non nominare il Buffet Da Gildo [6] in via Valdirivo, luogo frequentatissimo da triestini nella pausa pranzo e in qualsiasi altra ora della giornata. Qui è d’obbligo il panino (la rosetta è top!) con il prosciutto e la melanzana fritta. A disposizione degli avventori, un numero indefinito di tartine golosissime. Non chiamatele cicchetti, perché non vi filano, ma il concetto è quello. Un po’ più strutturato, pur mantenendo l’allure del buffet, è Da Giovanni [7], da sessant’anni cucina tipica triestina: trippa, goulash, patate in tecia, jota, gnocchi di pane e, ovviamente, bollito misto. Ultimo, ma non ultimo, il Buffet Rudy [8] Spaten in via Valdirivo, dove con la bora sferzante e il freddo degli inverni triestini si entra e, con i vapori della caldaia, si appannano gli occhiali: una meraviglia farsi riscaldare dalla carne calda, sublimata dal rafano che apre naso e gola meglio dell’aerosol.

[ph. Mauro Marass]