Una cucina straordinaria, mix mitteleuropeo dalle influenze più disparate. Al tempo stesso, guardandola con attenzione, la cucina triestina risponde puntualmente al clima del suo Golfo. Leggere ricette a base di pesce nelle calde estati mediterranee che fanno da contraltare a ricchi piatti di carne e calde minestre durante i rigidi inverni continentali, schiaffeggiati da violente raffiche di bora.


La Jota è un meraviglioso esempio di quella cucina povera basata sul recupero degli avanzi che il mondo ci invidia

La Jota è la minestra triestina per eccellenza, un meraviglioso esempio –tra gli infiniti della cucina italiana– di quella cucina povera, basata sul recupero degli avanzi, che il mondo ci invidia.
È anche un racconto del territorio: gli ingredienti sono locali e, senza scomodare troppo la storia, basti dire che una volta era il rebechin (lo spuntino) di metà mattina dei lavoratori marittimi, servito in molti degli esercizi affacciati sulle Rive. Una tradizione ormai persa: oggi la jota ha maggiore riconoscimento ed è presente nei menù come primo piatto.

Le varianti sono molte, da quella goriziana bisiaca, a quella slovena, quella istriana o quella bianca carsolina che sostituisce l’orzo ai fagioli. In Friuli e in Carnia esiste la variante con la brovada (rape fermentate nelle vinacce).
Ma è con i capuzi garbi (i crauti acidi), il contorno più tipico della cucina triestina, che va assaggiata. La fermentazione del cavolo cappuccio, risalente forse all’epoca di Carlo Magno, è un emblema di triestinità. Oggi si trovano in commercio, ma quando non esistevano i frigoriferi e le donne di casa conoscevano tutte le tecniche per la preservazione dei cibi, fermentare il cavolo cappuccio era un rito casalingo, oltre che il cardine della jota. A cui andavano ad “abbracciarsi” i fagioli, le patate e la carne di maiale.