“Trieste è una città noiosa, vivere qui non mi fa né caldo né freddo”. La citazione proviene dall’ultimo libro del poeta e viandante Luigi Nacci dal titolo Trieste selvatica, volume che è rimasto in vetta alle classifiche di vendita per settimane e che è diventato un vero e proprio caso editoriale.
Nacci da anni cammina lungo le tracce che compongono il reticolato dei passi di casa nostra, le voragini dove rimangono nascoste le storie che non abbiamo più tempo di ascoltare, chissà perché, chissà come.
Le tracce sono le stesse che Luigi lascia: per parlare a chi arriva da fuori, per raccontare che in fondo, il confine orientale d’Italia non è fatto solamente di salotti buoni e caffè gustosi, fumoir affascinanti o chiese profumate, “preda” del turismo facile. No, questa terra è soprattutto di chi va a piedi e di chi trova il tempo per ascoltare le storie delle nostre terre.

Cos’è la viandanza per te?
La viandanza è la possibilità di un’altra vita, dove la parte nomade e quella sedentaria che sono in noi convivono senza prevalere l’una sull’altra. Va oltre il camminare, che è un’attività innanzitutto fisica, e oltre il cammino, che è un viaggio all’ennesima potenza.

Nel tuo ultimo libro Trieste selvatica, buona parte delle pagine rivolgono lo sguardo ai boschi, alle foreste, e alle storie dimenticate delle terre orientali. Andarci a piedi può essere rimedio alla volontà politica di erigere nuove barriere? Se sì, con quali conseguenze?
Chi va a piedi è una creatura indifesa. Non è il soldato che marcia, va senza protezioni, non per affermare il proprio io ma per dimenticarlo. Noi di guerre in queste terre ne abbiamo avute anche troppe. Procedere lenti con una bandiera bianca issata sullo zaino non è la soluzione a tutti i mali, ma di certo non incrementa i rancori, né alimenta l’odio come alcuni hanno ancora in animo di fare. La seconda metà dell’800 e il ’900 sono stati tragici da queste parti, a causa dei nazionalismi. Il viandante non può essere nazionalista perché non ha un io da difendere, e quando vede un muro lo scavalca, non sa né può fare altro.

Trieste da girare a piedi, perdersi nelle vie. Se è vero che i turisti la vivono solo nei luoghi simbolo, dove è rimasta l’autenticità triestina al di fuori dei salotti buoni?
La grande Trieste, quella del porto imperiale e degli scrittori antesignani, è stata la città del caos. Senza quel caos di genti, lingue, sogni e popolo, non sarebbe forse stato possibile il genio di uno come Joyce. Oggi c’è il Carso, e poco più in là la selva, dove la natura fa il suo corso e nulla può essere facilmente addomesticato. A chi viene da fuori consiglio di lasciare il centro e perdersi nei boschi che ci circondano, essere un po’ meno turista e più esploratore.


Chi va a piedi è una creatura indifesa, va senza protezioni, non per affermare il proprio io ma per dimenticarlo..

Per quale motivo si può essere in cammino anche senza camminare?
Perché è lo spirito a contare. Il cammino ti fa vedere molte cose: quanto sei piccolo rispetto a una quercia secolare, o fragile rispetto a un possente animale selvatico, capace di sforzi immani, di cavartela da solo, e allo stesso tempo quanto hai bisogno dell’aiuto altrui, perché non trovi la strada o ti sei fatto male. Soprattutto ti incita a fidarti, a bussare alle porte, chiedere dell’acqua, ospitalità. Sono attitudini che, riportate nella nostra vita quotidiana, ci migliorano come esseri umani.

Cosa non ti piace dell’aumento del flusso turistico a Trieste e provincia e cosa manca nell’approccio alla materia?
Il ragionamento è complesso. Per dirla in breve direi che abbiamo due strade: quella che porta al modello Venezia, con una città-cartolina che preferisce i turisti ai suoi cittadini, e una strada nuova, da costruire tutti assieme, dove centro, periferie, Carso e dintorni sono equiparati, la rete e il sistema prevalgono sul fermo immagine. Trieste deve ricordarsi di essere il punto di riferimento di un’area più vasta, non un’area metropolitana, ma “silvano-metropolitana”, plurilinguistica e multiculturale: Castello di Miramare e castellieri carsici, piazza Unità e foci del Timavo, le statue di Saba e Svevo insieme alle grotte di Slataper e ai pini di Kosovel, i caffè storici con le foreste piene di orsi. E non deve scordare il suo lato popolare: le osterie devono rimanere osterie, le osmize devono rimanere osmize, non trasformarsi in locali gourmet. Siamo stati grandi quando siamo stati una mescolanza, la nostra forza, diremmo in dialetto, è nel mis mas.