
La scalinata avvolta dall’imponente colonnato neoclassico illumina un tavolino dove il crepuscolo è ormai passato e, tra lo sbrilluccichìo delle luci sul mare e la lanterna rossastra di un abat-jour a piantana, due amanti studiano l’alba di un nuovo amore. “Al chiaro di Luna” è un quadro che si trova al quinto piano del museo Revoltella ed è stato dipinto, nel 1917, dal pittore triestino Glauco Cambon. È questo l’angolo nascosto da dove simbolicamente partire per raccontare la Trieste degli innamorati. Infatti, se il luogo raffigurato nel dipinto rimane a noi sconosciuto, lo stesso non si può dire dell’emozione che ha prodotto nel cuore di ognuno di noi quel sentimento impossibile da replicare a comando.
Batticuore che manda fuori ritmo anche le più intonate sincronie, a Trieste l’amore risponde ad una lunga lista di cortocircuiti. Competizione e ritratto, paesaggio ed agonismo dello spirito, i sedimenti emotivi della sua storia regalano un certo particolarismo anche nelle stagioni dell’amore. Inoltre, in una terra sventrata dai drammi novecenteschi la sua leggerezza diventa terapia e, al tempo stesso, immateriale strategia di sopravvivenza.
È l’amore italofono di Raffaella Carrà a svelare, all’ignoranza topografica dei tanti, la mappa di questo oriente dimenticato. Eppure, l’italiano è solo l’ultima delle lingue con cui questo luogo ha flirtato durante la sua carriera. Dal latino che disegna l’atto d’amore di san Giusto, martire gettato in fondo al mare dai romani perché cristiano, fino all’ultimo sospiro di Johann Winckelmann, celebre padre dell’archeologia moderna ed assassinato in piazza Grande dalla passione del cuoco pistoiese Francesco Arcangeli, l’elenco degli amori triestini è travolgente.
Dove si scavano cave a forma di cuore e alle mogli si regalano bianchi castelli che mirano al mare.

Quel colpo di fulmine che prima o poi capita a tutti finisce dritto in bocca al popolo, che usa la sua baldanza per prenderne in giro l’ostentata serietà. “Amor no xe brodo de fasoi” è espressione tanto sagace quanto tagliente, volta a raccontare quella “scontrosa grazia” che –anche nell’amore dei poeti– rimane congelata grazie ai versi dei suoi migliori interpreti. Qui a Trieste l’importanza dei “santi affetti” dimora in quel volersi innamorare un po’, senza mai volersi prendere troppo sul serio. Dove si scavano cave a forma di cuore (Bagnoli della Rosandra-Boljunec, all’imbocco dell’omonima valle) e alle mogli si regalano bianchi castelli che mirano al mare, il mistero più antico al mondo parla, canta e si esprime nelle sue intramontabili e vivaci contraddizioni.
L’ideologia fascista ha tentato di sezionare il cuore delle molte anime triestine, senza tuttavia fare i conti con il fatto che sulla frontiera i matrimoni misti (tra sloveni ed italiani o tra ebrei ed ortodossi) sono sempre esistiti. È qui che l’amore senza confini entra in clandestinità, si fa resistenza e riemerge, da quella oscura stagione, più forte di prima. Ma l’amore sopravvive in tutte le sue forme, siano esse coniugali o di voglie, di piacere o di “pubblica moglie”. Sono molti i critici che sostengono che Fabrizio De André, per scrivere “La città vecchia” si sia ispirato alla poesia di Umberto Saba, un luogo oggi identificato come Cavana e dove “qui degli umili sento in compagnia, il mio pensiero farsi, più puro dove più turpe è la via”.
Alla fine, vittime del sudore e della pubertà adolescenziale, mano nella mano, su quel molo Audace, o su qualche collina al tramonto,ci siamo finiti tutti.
Tuttavia, non sempre la geografia dell’amore risponde a toponimi turistici. A Trieste, ufficialmente, non esiste una via dell’Amore o ponti dove incatenare la felicità di coppia. Eppure, quel sentimento ha ambizioni –come pure una sufficiente dose di egocentrismo. I social raccontano di una città che frequenta le piattaforme di incontri, e dei suoi giovani che si innamorano come conseguenza di una scintilla la cui genesi è digitale. Attenzione, però, a confonderne le caratteristiche: l’amore non è mai virtuale, neanche in quei casi. Alla fine, vittime del sudore e della pubertà adolescenziale, mano nella mano, su quel molo Audace, o su qualche collina al tramonto, ci siamo finiti tutti. L’orizzonte romantico come una distesa di speranze lontane, dove per calmare gli spiriti c’è solo bisogno di crescere, o di una raffica di Bora.
Nel tempo e nello spazio, l’amore triestino subisce alcune mutazioni. Ci sono diversità tra le superficialità urbane –non sempre– e le profondità dell’altipiano alle sue spalle – non esclusivamente geologiche. Vengono definite carsiche le nozze che tradizionalmente si celebrano nel comune di Monrupino e che mettono in scena, in onore di due giovani sposi di lingua slovena, una vera e propria festa di paese. Ma l’amore è anche quello che i soldati angloamericani portano via da Trieste, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Saranno numerose le “mule” a seguire quelle divise, tra gli States ed il Regno Unito. C’è poi l’amore degli emigranti, che si accompagna all’ossessione di chi ha deciso- pur amandola, di non vivere più in riva all’Adriatico. Per loro, Trieste sarà l’unico termine di paragone possibile. Ma una storia d’amore, per poterla coltivare, da qualche parte deve pur nascere. Per innamorarsi basta un luccichio sul mare, un chiaro di Luna o un incrocio di sguardi. Qui è più facile che altrove.