A Trieste si è portati ad immaginare il mare alla stregua di una massa galleggiante dove proiettare personali ambizioni e storie di comunità sembra facile. La direzione, abusata nella sua banalità, è quella di una città che vive una relazione privilegiata con i mari che la bagnano: Trieste è adriatica, eppure così mediterranea, potremmo affermare.
Il modello narrativo, non è difficile interpretarlo, sconta un approccio che impone la città, e non viceversa. Trieste deve la sua fortuna a ciò che qui viene trasportato via mare, non grazie al mare. Dopo l’attracco delle imbarcazioni sulle rive, o sulle sponde del Canal grande fino a ridosso della chiesa intitolata a Sant’Antonio, le merci venivano scaricate per poi prendere una direzione precisa, vale a dire il mercato cittadino. Quando arriva la ferrovia, tempo dopo, le merci viaggiano verso l’entroterra dell’Europa centrorientale senza fermarsi. Per capire ciò che rimane a Trieste e ribaltare così la geografia della narrazione, bisogna addentrarsi in quella che è la prima (o la seconda) periferia triestina. È da lì, camminando a mezza costa senza mai perdere di vista l’Adriatico, che si può nuotare nel mare interno di questa città.


La val Rosandra, con il suo torrente e le sue pozze gelate, è mare interno e refrigerio estivo.

Come racconta Fernand Braudel ne “Il Mediterraneo”, molti dei generi alimentari che ancora oggi fanno parte della nostra cucina provengono da altri mondi. Così, al viaggiatore susciterà una certa curiosità sapere che in alcuni paesi del Carso, subito oltre la linea dell’altopiano, i pomodori non si mangiavano –né si coltivavano– fino ad inizio Novecento; fu il mare, molti secoli prima, a farli giungere fino in Europa. Questa città non è riuscita a cambiare il mare –forse solo la Repubblica di Venezia e la marina britannica ce l’han fatta–, è il mare che ha cambiato il corso della sua storia.
Da ogni balcone naturale, sia esso pastino o vedetta, a Trieste si vede il mare. A mezza costa –dicevamo– si snodano sentieri e strade che corrono verso ogni dove. Alcune portano nomi di illustri concittadini. Altre, come strada del Friuli o via dell’Istria, conducono nei luoghi alle quali sono intitolate. Via Revoltella è una lunghissima arteria dedicata al barone Pasquale Revoltella e che collega il centro alla periferia. Nel XIX secolo fu lui a sottoscrivere, per nome e per conto dell’Impero asburgico, la compravendita di parte delle azioni della società che, di lì a poco, avrebbe “tagliato” l’istmo di Suez, favorendo così i traffici occidentali. La via è lunga ed in salita: il viaggio verso oriente non era né facile, né scontato.

Ci sono itinerari che venivano percorsi dai pescatori dei paesi del Carso. Ancora oggi lunghe scalinate portano al mare e viceversa, in quelle mulattiere tanto adriatiche quanto umane. I nomi si ripetono, tra la riva e il ciglione carsico. Bovedo, nel rione di Barcola, dà il nome tanto ad un torrente quanto ad un bosco di straordinaria bellezza. Un tempo zona di saline e di torrenti, la zona del centro denominata piazza San Giovanni deve il suo nome al ritrovo dei triestini da dove incamminarsi per raggiungere l’omonimo rione, in occasione della festa estiva in suo onore. La direzione è sempre quella, dal mare verso l’entroterra, da ovest verso est. Trieste possiede mari diversi e la corrente giusta non sempre è quella che seguono tutti.
La val Rosandra, con il suo torrente e le sue pozze gelate, è mare interno e refrigerio estivo. Dentro alla riserva naturale ci si può concedere qualche tuffo, quando la canicola estiva è particolarmente insostenibile. Il “mare dentro” potrebbe essere anche un lago, ma a Trieste non ce ne sono. Ci sono i torrenti –chiamati patok, alla slovena-, ma seguirli dalla foce alla sorgente oggi è operazione ardua. Risalendo verso il bosco al Cacciatore il torrente Starebrech (o Farneto, all’italiana) corre vicino al sentiero Bacarubra. Non è Adriatico, ma il profumo del mare, certe sere, si sente fin qua.


Trieste è adriatica, eppure così mediterranea, potremmo affermare.

Camminando tra il mare e il Carso si può pensare agli arrivi e alle partenze, ai successi quanto ai fallimenti. Quando finisce la Prima guerra mondiale è dal mare che arriva l’esercito italiano, non da terra; l’esperimento dell’elica di Ressel è un flop, e la casa d’Austria si lascia scappare la formalizzazione del brevetto dagli inglesi, loro sì, gente di mare. Massimiliano d’Asburgo si innamora di Miramare perché costretto a riparare nella baia di Grignano da un improvviso fortunale, non perché fosse così impellente il bisogno di edificare un castello in onore della sua Carlotta. Dal ciglione ci sono alcuni luoghi da dove ammirare i tramonti. Sono calcari marini, scogli da dove planare sulla città. Può essere un’osmiza in via Commerciale o la rosa dei venti di Conconello; ma sono anche vedette, come quella che sorge nella zona di Duino ed intitolata a Tiziana Weiss, tra le prime alpiniste al mondo a raggiungere un sesto grado da capocordata. Morta dopo un incidente sulle pale di San Martino, Tiziana Weiss è oggi sepolta nel cimitero di Barcola, sulla riviera triestina. A Trieste, dove il mare ha uno spazio tutto suo all’interno delle coscienze, non è raro accostare l’Adriatico alle Alpi, e viceversa. È perché qui le cose possiedono molti nomi e diversi significati, e funzionano –o hanno funzionato– anche quando gli uomini pensavano il contrario. Il mare di Trieste –interno o no– provoca confusione e si agita, ma sa chiarire le imprecisioni ed è in grado di calmare gli spiriti. A volte può suscitare gelosie ed invide, altre volte, invece, è taumaturgico. È dappertutto, basta solo saperlo cercare.