
Dal serenissimo campanile di Muggia alla lingua di sabbia di Marina Julia. Tre giorni di cammino lungo una terra di confine che il giornalista Nicolò Giraldi e il grafico Matteo Bartoli hanno calpestato, incrociando i loro sguardi sulle memorie che questa frontiera ha vissuto negli ultimi secoli. Tra foreste di pungitopo e vini bianchi, fino agli scorci suggestivi di luoghi come la val Rosandra o il ciglione carsico, la coppia di viandanti ha ripercorso antichi itinerari solcati dalle donne slovene che portavano il latte a Trieste, camminando sul calcare delle pietre che proteggono il Carso e abbracciano l’Adriatico. Un’immagine del viaggio lento, capace di restituire il senso delle cose, il sapore delle storie dimenticate.
Ogni passo una storia, ogni terra una vita. Se la legge della fisica impone che ad ogni azione corrisponda una reazione uguale e contraria, allora in questa ultima estate virale quel particolare desiderio di muovere un passo dietro l’altro ha regalato un tanto improvviso quanto naturale antidoto contro le paure e che risponde al nome di cammino. Alla stregua di una cura da somministrare con pazienza soprattutto nei confronti delle sovrapposte memorie di confine, i circa ottantamila passi che collegano Muggia al lungomare di Marina Julia respirano l’aria adriatica ed incontrano il calcare del Carso. Tra il solletico delle foreste di pungitopo, fino ai vigneti sferzati dalla bora, l’epifania di una linea di faglia talmente stratificata da far tremare il sismografo delle culture si mostra limpida –ai nostri piedi e alle nostre anime– come in nessun altro modo.
Da punta Sottile a punta Sdobba, tre giorni di traversata sono capaci di restituire, oltre al sempre più necessario movimento lento, un moderno andar per sentieri (e per campi) caro ai pellegrini di un tempo. Quanta comprensibile confusione vive chi giunge da fuori, e chissà quante perplessità si portano appresso, dopo il primo approccio con queste terre, i viandanti alla perenne ricerca del senso delle cose. Zaino in spalla e guardati a vista dai serenissimi leoni che proteggono Muggia, i primi passi del viaggio inciampano sull’autenticità di antiche botteghe dove farsi preparare qualcosa da mettere sotto i denti. Le faticose verticali nascoste in mezzo a quei pastini disegnati ad uliveto lambiscono enormi blocchi di arenaria di cave dismesse, dove qualche picchio verde si spinge con prudenza e dove le aritmie quotidiane tendono a svanire.
Un moderno andar per sentieri caro ai pellegrini di un tempo.
Camminando lungo le tracce di questa periferia ci si accorge che non c’è solo il Novecento –e non è neanche una mera questione storica, o storiografica. Importanti siti paleontologici come pure dimensioni invisibili alle superficialità quotidiane, aggiungono il sottosuolo che qui, prima che altrove, inizia ad essere studiato. L’anima dello speleologo si fonde con quella dell’esploratore, dell’uomo politico, come d’altronde con quella degli scienziati, degli alpinisti, dei dottori in vino contemporaneo e dei biografi di confine.
Il flusso di informazioni che il visitatore subisce quando mette per la prima volta piede sul confine può essere molto corposo e solo il cammino può spiegarlo con precisione; ascoltare il frastuono della cascata del torrente Rosandra, contare gli asparagi selvatici ed osservare i toponimi scritti in lingua slovena non sono emozioni esaustive, ma aiutano ad aprire un varco nella pietra come solo gli scalpellini carsici sanno fare. Ogni tanto spunta il selciato romano e l’onnipresente tiglio posizionato nella piazza centrale di ogni paese. “Fa ombra, non ha bisogno di grande manutenzione e sembra possedere un carattere mistico” racconta Walter Stanissa che assieme alla moglie Maddalena Giuffrida ad Aurisina accolgono i viaggiatori nell’oasi di Juna, una vecchia stazione di posta trasformata in bed and breakfast dove i pompelmi mediterranei riposano all’ombra di un ippocastano maturo.
Camminare lungo questo confine è come quelle vecchie ricerche che un tempo si facevano grazie alle enciclopedie delle biblioteche o dei nonni.
In questa terra sono le geologie e gli spiriti ad accompagnare chi va a piedi. Il pesce arrivava in Carso attraverso le migliaia di scalini di quelle lunghissime mulattiere di mare solcate per secoli dai pescatori di Santa Croce; imbarcazioni stanche oggi sostituite dal Delfino Verde, che tra Trieste e Muggia fa la spola come al tempo dei vaporetti. Camminare sopra a questa terra è come collegare i punti affinché l’immagine prenda forma. C’è un ordine preciso nell’iniziare a giocare, come d’altronde un improvvisato modello da seguire: per poter raccontare di aver vissuto il confine va cambiato il tradizionale punto di vista, un po’ come quando alla corte siciliana di Ruggero II, il geografo Muhammad al-Idrisi diede vita alla tabula Rogeriana: quell’eccezionale rappresentazione delle terre emerse fino ad allora conosciute (rimase fino alla fine del XV secolo la mappa più accurata mai disegnata) metteva in scena il mondo capovolto, così da osservarlo da sud verso nord. Il camminare lungo questo ciglione a picco sul mare, o a due passi da cimiteri militari di austroungarica memoria, innesca uno spaesamento terapeutico e disincaglia i dubbi di quei viaggiatori che si impantanano nelle paludi della retorica.
I campanili battono le ore e dall’alto contano i passi di chi –non solo persone vestite da turisti– arriva qui da molto lontano, lungo la Rotta balcanica. Sui sentieri del Carso è facile imbattersi in vestiti, scarpe ed indumenti abbandonati da chi fugge da guerre e persecuzioni, o è semplicemente in cerca di una vita migliore. Così lo stupore deve lasciare spazio al consapevole studio dell’entusiasmo, l’assaggio delle particolarità che si manifestano di continuo, non a guisa di semplice cartolina da spedire ai propri cari, bensì reale istantanea dello scheletro di questa frontiera. Pietre angolari che vengono raggiunte dai segnavia del Cai o di chi percorre il Sentiero Italia, la via Alpina, l’Alpe Adria Trail, la via Flavia, chi s’imbarca in cammini lontani, chi scorge la conchiglia di San Giacomo ed è diretto a Santiago, a Roma o a Gerusalemme. Nelle chiese del Carso trovano riparo gli spiriti laici di chi si interroga sul futuro, sugli sbagli commessi e su quell’amore, per dirla alla Herman Hesse, che “dà e non chiede”.
Tradizionalmente da queste parti c’è un viaggiatore che vaga da solo o che congela gli appunti registrando le mani di un’anziana che sopra la tovaglia pulita separa il gusto dal rifiuto, in una terrina colma di radicchio forse cresciuto un po’ troppo in fretta. Un po’ come Federico Lindner, uno che chiamato a dirigere l’ottocentesco Ufficio dei Metalli e dei Prodotti Montanistici del comune di Trieste, depositò la sua curiosità in fondo a buona parte delle cavità carsiche, cercando con entusiasmo la leggendaria verità del fiume nella notte, il Timavo. Ogni tanto in Carso l’acqua sgorga anche dal sottosuolo, mentre il vino riposa nelle ariose cantine. A Prepotto, paese della Vitovska, il vignaiolo Matej Lupinc ribalta latitudine e longitudine, lascia entrare il vento nelle sue botti e lo intrappola assieme alla Malvasia. “Qui la Bora scende da lì” racconta indicando un punto da dove non ti aspetteresti mai. È come perdere l’orientamento o soffrire di vertigini ammirando alpinisti intenti ad allenarsi in palestre di roccia naturali, scrigni gratuiti ed allo stesso tempo custodi di memorie illustri. Dalla val Rosandra alla Napoleonica riecheggiano i nomi di Emilio Comici, Enzo Cozzolino, Tiziana Weiss, Napoleone Cozzi e molti altri che dagli antri del Carso raggiunsero, tra i primi, le più difficili vette dolomitiche.
Per poter raccontare di aver vissuto il confine va cambiato il tradizionale punto di vista.
Le dimensioni del cammino sulla frontiera sono frutto di una spirale verso l’alto e di una ricerca che scava nel profondo. È una lunghissima lista fatta di botanica, storia dei paesi, monumentalizzazione del ricordo ed artigianato locale, e ancora, fisica applicata all’integrazione, accoglienza a braccia aperte di tutto ciò che in questi lunghissimi mesi caratterizzati dalla pandemia non siamo riusciti ad assaporare. Un’operazione di rimboschimento emotivo e di paziente concimazione, fondamentale affinché le mappe possano, una volta per tutte, sovrapporsi e mostrare il loro volto complessivo. Camminare lungo questo confine è come quelle vecchie ricerche che un tempo si facevano grazie alle enciclopedie delle biblioteche o dei nonni. Mappe da posizionare le une sopra le altre, ognuna in grado di riprodurre un racconto diverso e da poter approfondire con lentezza. Ogni passo un mondo nuovo, ogni storia il vero motivo per ritornarci.