
GRECO
Tra i tanti aneddoti che la storia greca ha regalato alla città di Trieste spicca, per gli amanti del futbol, la storia del soprannome dato ai giocatori della Unione Sportiva Triestina Calcio, vale a dire “i greghi”. Parola oggi in via di estinzione, l’ellenismo in salsa alabardata rimane ben ancorato grazie ad uno dei tanti club di tifosi che affollano lo stadio alla domenica e che ricordano, a distanza di più di un secolo, come in quei primi consigli d’amministrazione sedesse più di qualche facoltoso greco. Se il calcio rappresenta un linguaggio di facile ed universale comprensione, altrettanto lo sono gli affari. Sono proprio le mille opportunità commerciali e mercantili che la Trieste asburgica offre ad attirare genti da tutto il Mediterraneo, Grecia compresa. E tra i mercanti che giungono in riva all’Adriatico vi è anche quel Demetrio Carciotti che per primo capì la necessità di traduzioni ed interpretazioni a bordo delle imbarcazioni dirette a Trieste. Il suo palazzo, oggi in vendita, fa bella mostra di sé a due passi da molo Audace e dalle rive, proprio dove un tempo attraccavano i preziosi carichi delle navi. La lingua franca che qui si sviluppa dopo la proclamazione del porto franco prende in prestito termini da ogni idioma. E i greci, dopo l’insediamento come comunità, erigeranno la propria chiesa a causa di un problema linguistico. Inizialmente, infatti, la comunità ellenica condivideva il tempio con i serbi. La lingua utilizzata durante le funzioni divenne una questione insormontabile, cosicché i greci scelsero di abbandonare San Spiridione e di abbracciare San Nicolò. Divisioni superate da tempo, la cui testimonianza è visibile quotidianamente. Passeggiando tra via San Nicolò, le rive e via Cassa di Risparmio si può assistere all’incontro tra l’archimandrita greco e lo stavroforo serbo, i due massimi esponenti delle rispettive comunità religiose. Fanno colazione assieme, a volte prendono un aperitivo. Chiacchierando.
Le mille opportunità commerciali e mercantili della Trieste asburgica attirarono genti da tutto il Mediterraneo, Grecia compresa.
SLOVENO
Una delle banali semplificazioni in cui la narrazione di questo territorio incappa di frequente è l’equazione che vorrebbe Trieste italiana e il Carso sloveno. La comunità slovena –che troppo spesso viene definita minoranza, come se fosse suddita di una maggioranza che detiene il potere– ha le sue radici non solo sull’altopiano, bensì anche nei rioni periferici della città. È in quartieri come Skedenj (Servola) o Sveti Ivan (San Giovanni), come pure nei paesi di Lonjer (Longera) e Barkovlje (Barcola) che si può sentire il dialetto sloveno di Trieste.
Nella miglior tradizione particolarista, la parlata è legata agli insegnamenti di France Prešeren (il padre della lingua slovena), con l’aggiunta di parole e affermazioni italiane, o meglio dialettali. Gli sloveni di Trieste, al contrario dei triestini italiani, sono tutti bilingui e saltano, senza sforzo, da una lingua all’altra.
La storia della comunità slovena di Trieste non si può raccontare senza menzionare le vessazioni e le violenze subite durante il ventennio fascista. L’utilizzo della lingua slovena in pubblico venne vietato, le camicie nere appiccarono il fuoco al Narodni dom, i parroci sloveni vennero obbligati a dir messa in italiano e non più nella loro lingua. L’elemento identitario sloveno è molto radicato negli ambienti ecclesiastici: dal 1800 fino alla fine della prima guerra mondiale, la diocesi di Trieste venne retta ininterrottamente da vescovi sloveni. Nella chiesa di San Giovanni decollato, nell’omonimo rione, ancora oggi la messa viene officiata anche in sloveno. Non potendosi parlare in pubblico, lo sloveno assunse una dimensione ancora più intima: la clandestinità lo fece diventare la prima forma di resistenza al nazifascismo.
Nel 1903 a San Giovanni nasce Vladimir Bartol. Scrittore praticamente sconosciuto in Italia, il suo capolavoro Alamut è stato tradotto in diciotto lingue. A Santa Croce nacque Viktor Sulčič, l’architetto che, dopo essersi rifugiato in Argentina durante le persecuzioni fasciste, nel 1940 realizzò la cosiddetta Bombonera, lo stadio del Boca Juniors a Buenos Aires. Lo scrittore Boris Pahor, morto all’età di 109 anni, era sloveno. La giornalista della Rai che trasmette da Berlino è Barbara Gruden e proviene dalla comunità slovena di Trieste, come d’altronde fu Sergio Canciani, storico corrispondente del servizio pubblico da Mosca.
Il dialetto parlato dai triestini è pieno di termini presi in prestito dal ceppo slavo: clanz (via stretta, sentiero), zima (inverno, ma inteso più come freddo particolarmente pungente) e brivez (barbiere), ma anche le imprecazioni come cudić (diavolo) i classici osmiza (che non ha bisogno di traduzioni) e patok (fiumiciattolo, torrente), fino al cisto (senza soldi) e al trdo. Purtroppo, alcune parole sono divenute oggetto di scherno nei confronti della comunità slovena. “Parlar per za-kaj” (perché) assume un significato dispregiativo, come a sottolineare l’incapacità espressiva dell’interlocutore. Per fortuna alcune contrapposizioni sono sempre meno frequenti.
IstrO VENETO
Drio la vecia pompa de benzina alla nove sona una campana che le vecie istriane le va in cesa, qua un esodo comincia ogni mattina, sì un esodo comincia ogni mattina, te lo trovi in piatto ora de zena”. Nei dieci anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale a Trieste giunsero decine di migliaia di esuli istriani e tra le settanta e le ottantamila vi si stabilirono. Giunsero soprattutto agricoltori, pescatori e famiglie povere, senza una elevata istruzione scolastica. Con loro, oltre alla dignità che contraddistingue tutti i profughi del mondo, Trieste venne invasa dal dialetto istriano. Alcune aree della città videro una presenza di esuli maggiore di altre, come il caso di Chiarbola e della canzone Baiamonti di Toni Bruna, brillante cantautore triestino autore dell’attacco di questo articolo.
Ogni popolo che viene costretto ad abbandonare la propria casa soffre di un trauma da sradicamento. Per questo, spesso, la sua comunità necessita di figure di riferimento. Gli scrittori Fulvio Tomizza e Pier Antonio Quarantotto Gambini, il vescovo monsignor Antonio Santin, ma anche lo stilista Ottavio Missoni (esule da Zara) sono parte dei molti rappresentanti di una istrianità che oggi, a causa della presenza sempre minore di diretti discendenti e all’omologazione degli stessi, vive la sua fase più difficile. Sono le loro parole a tener viva quell’identità. Sono le parole di Magazzino 18, lo spettacolo scritto ed interpretato da Simone Cristicchi sul dramma del confine orientale. La parlata si traduceva anche nei canti: sì, gli istriani erano un popolo che cantava. I cori sono ancora oggi un elemento che porta avanti quella tradizione, anche a Trieste. Ma si sa, la storia dell’umanità è contraddistinta da contrapposizioni. In questo triste fenomeno finisce anche l’istriano. I triestini rivolgono pesanti accuse ai profughi che arrivano in città. “Ghe regala le case”, “i istriani ne ruba el lavor” e quella fastidiosa nomea di popolo “sparagnino” che si traduceva in una barzelletta a sfondo razzista del tipo: “Sapete come si riconosce la casa di un istriano? C’è la carta igienica messa ad asciugare”. La lingua può diventare biforcuta, ma fortunatamente nell’era contemporanea tutto ciò sembra essere più vicino al miraggio che ad una quotidiana realtà. Oggi resistono alcune associazioni che portano avanti una storia significativa, nel tentativo di tenere viva l’identità istriana che altro non è che quell’elemento di origine latina sulle sponde dell’Adriatico orientale.

serbo
La notte del Natale ortodosso la chiesa di San Spiridione viene assediata da centinaia di fedeli di nazionalità serba. La solennità del momento ha una intensità unica.
La notte del Natale ortodosso la chiesa di San Spiridione viene assediata da centinaia di fedeli di nazionalità serba. La solennità del momento ha una intensità unica. Non è cambiato niente dai tempi in cui i primi serbi giunsero a Trieste, ancora ad inizio del XVIII secolo. Il tempio era stato costruito all’interno del perimetro del borgo Teresiano. Inizialmente greci e serbi avevano dato vita ad una vera e propria coabitazione dell’edificio sacro. Poi, proprio a causa della lingua da utilizzare nelle funzioni, i greci decisero di andarsene e di realizzare il proprio tempio sulle rive, a due passi da piazza Unità.
Ci sono due elementi serbi nella Trieste del XXI secolo: tutto ciò che affonda le radici nella prima ondata migratoria (quella originaria, potremmo dire così) e quella che risale tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta del Novecento. Emigranti dai territori della Jugoslavia socialista, per raggiungere l’occidente, ma anche serbi scappati dai dintorni di Belgrado durante i bombardamenti del 1999. Tra le comunità storiche la serba rappresenta quella meno sofferente dal punto di vista demografico e la si può toccare con mano –anzi, ascoltare– in diversi punti della città. Piazza Garibaldi, il rione di San Giacomo (simile per certi versi a Belgrado, con le sue colline e i suoi versanti), ma anche alcuni locali del centro storico.
Il serbo è una lingua che i triestini non parlano, ma mangiano. Pljeskavice (le cosiddette svizzere, ma più saporite) e i čevapčiči sono la locale e privilegiata introduzione ai Balcani, quegli elementi che confermano come questa città possa essere definita, senza troppi problemi e con buona pace dei nazionalismi, anche un’appendice del mondo slavo. La comunità serba è stretta attorno alla sua chiesa, ma non disdegna l’approccio laico e l’incontro con le altre culture. Se sei nato a Trieste da famiglia serba è possibile che i genitori decidano di iscriverti alla scuola slovena: è una sorta di panslavismo di prossimità, senza disegni egemonici, né ambizioni territoriali. Il passato di Trieste ha visto il passaggio di grandi personaggi della storia. Per quanto riguarda la relazione tra i Balcani e la città emporio questo nome è Ivo Andrić, premio Nobel per la letteratura con il suo “Il ponte sulla Drina” e viceconsole per il Regno degli Sloveni, Croati e Serbi tra il 1922 ed il 1923. Piccole storie che testimoniano una sorta di grandeur del passato.