
La “Grande onda” di Kanagawa è esposta in un palazzo del centro storico di Trieste incastonato tra quella che fu la dimora di Napoleone Bonaparte e una chiesa sconsacrata. Si fanno due piani di scale ed è lì, sotto una teca di vetro scintillante. Non siamo alle prese con una banale ilarità, bensì con una reale rappresentazione –meglio definirla copia– di uno dei capolavori assoluti dell’arte orientale. Siamo nel Museo d’Arte Orientale [1] di Trieste, uno dei numerosi Musei Civici della città mitteleuropea per eccellenza. Una suggestiva lista di contenitori di storia e di storie, le più diverse, come d’altronde è naturale che sia. E questo è l’inizio di una visita al passato della città sul filo della storia.
Suggestioni e intercci della storia, 12 tappe sul filo della memoria
Si citano sempre i musei importanti, quelli dal passato conosciuto, le storie che impariamo velocemente da piccoli e senza bisogno di ripassi frettolosi in vista dell’interrogazione. “Da bambini ci si ricorda del grande squalo bianco del Museo di Storia Naturale [2]”, si potrebbe scrivere pensando alla sterminata collezione di questo museo che, in questo caso, lega il retroterra calcareo della città, con il mare. Perchè quel grande squalo bianco proveniva dall’Adriatico orientale, quando ancora nessuno aveva timore dei grandi predatori del mare.
E le storie del mare –o forse sul mare– vengono raccontate proprio nelle sale del Museo del Mare [3]. Imbarcazioni, modellini, eliche e fumosi motori del tempo; i piroscafi e le piroette espressive che, ad esempio, trovano spazio nel racconto delle čupe –o zoppoli, in italiano– vale a dire i monossili utilizzati dai pescatori sloveni del borgo di Santa Croce per poter sfamare la propria famiglia.
È un enigma collettivo la strada che conduce alle memorie triestine. La Risiera di San Sabba [4] è monumento nazionale e una vicenda complicata vuole che un giovane eccentrico triestino, il collezionista Diego De Henriquez, avesse trascritto i “graffiti” che gli internati dell’unico campo di sterminio nazista in Italia erano soliti incidere sulle pareti delle celle. De Henriquez li trascrisse sui suoi taccuini, perduti per sempre tra le varie vicissitudini del personaggio morto nel rogo della sua casa di San Maurizio, che in molti considerano ancora di origine dolosa. I taccuini, infatti, avrebbero conservato memorie “scomode” e per questo andavano fatti sparire.
Se la memoria è passato, è altrettanto vero che i tempo antichi conservano i resti delle anime scomparse
Ma si sa, la Storia ritorna a galla quasi sempre. Dopo anni di lunghissima sedimentazione e gestazione, la più grande collezione museale di tutti i tempi trova spazio nel Museo della Guerra per la Pace [5] a lui dedicato. Ci sono perfino le carrozze che avrebbero trasportato il feretro dell’Arciduca Francesco Ferdinando, assassinato assieme alla moglie a Sarajevo nel giugno del 1914 e che darà inizio alla Grande Guerra. I funerali, infatti, si tennero proprio a Trieste.
Se la memoria è passato, è altrettanto vero che i tempo antichi conservano i resti delle anime scomparse. Johann Winckelmann, la pietra angolare dell’archeologia moderna, venne ucciso a Trieste, in un delitto che ancora oggi si definisce “passionale”. Un toscano lo assassinò brutalmente l’8 giugno del 1768 nella piazza principale di Trieste e il suo corpo gettato in una fossa comune. Il cenotafio a lui dedicato sorge all’interno del comprensorio dell’Orto Lapidario [6], custode spirituale delle antichità tergestine.
Ma si sa, le rappresentazioni delle epoche precedenti non rimangono esclusivamente scolpite nella pietra o fuse nel piombo. Sono immagini, icone preparate ad olio, tempera e acquerelli. Sono i dipinti, minuziosamente ordinati nel Museo Revoltella [7], la dimora del barone che per conto degli Asburgo acquistò alcune quote dell’impresa che tutti conoscono con il nome di “taglio dell’istmo di Suez”. All’interno di questo luogo, in pieno centro a Trieste, ci si può perdere tra le mille stanze del mecenate e si può perfino pensare di essere nell’epoca sbagliata. Pasquale Revoltella, infatti, per controllare il palazzo –all’interno e all’esterno – fece predisporre un gioco di specchi e fece realizzare alcuni cunicoli, affinché potesse osservare qualsiasi movimento sospetto delle sue maestranze o di viandanti sulla pubblica via. Hudlus Huxley scriverà “Ritorno al mondo nuovo” appena negli Anni Trenta del Novecento, ma qui il Grande Fratello era presente già nel XIX secolo.
Sono i tempi che prefigurano l’arrivo della scuola letteraria triestina, quella degli Svevo, dei Saba e dei Joyce. In via Madonna del Mare capita spesso di incontrare turisti britannici intenti a visitare il Museo di Joyce [8], frutto di un’incredibile collezione di aneddoti, storie e, perché no, divertenti vicende dell’irlandese che proprio a Trieste scrisse il primo capitolo dell’Ulisse.
Un museo si capisce non ha capacità di contenere tutte le memorie. Lo spazio viene distribuito a seconda dei dettami di chi in fondo cataloga, dell’importanza che risiede nel mettere assieme le storie dei tempi in cui s’andava a cavallo, gli omnibus, le prime automobili o le vicende dolorose del Novecento (come al Museo della Foiba di Basovizza [9] o in quello della Civiltà Istriana [10]). Potrebbero essere i castelli di Miramare e San Giusto, ma anche la Casa di Osiride Brovedani [11], l’uomo che fece felici i bambini di tutta Italia legando il suo nome alla pasta Fissan; e le storie delle “pancogole” di Servola, le donne slovene che dal rione oggi intrappolato dalla Ferriera scendevano a Trieste per vendere il pane, quelle dove si trovano?
Farsi sospingere dalle raffiche di vento potrebbe essere il rimedio, per riuscire a visitarli tutti. D’altronde a Trieste qualcuno s’è inventato perfino il Magazzino dei Venti [12], il museo dedicato all’unico vento –assieme alla Tramontana– ad essere femmina: la Bora.